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CASA DOLCE CASA di Lorena Giardino


Si sente spesso dire che ogni casa possegga una sua anima, una sorta di essenza che la caratterizza e che in qualche modo si “respira” entrando tra le sue mura. Può darsi che quest’anima sia il risultato dei vissuti e delle storie di coloro i quali in quella casa hanno vissuto, gioito, sofferto, amato, odiato..

Ma cosa succederebbe se quell’anima fosse talmente forte da travalicare il semplice “sentire” dei suoi abitanti per farsi volontà prevaricatrice?

La storia che vado a raccontarvi è giunta alle mie orecchie attraverso il racconto di una strana, vecchia signora che incontrai nello scompartimento di un treno durante un viaggio al nord.

Entrando nello scompartimento, mentre armeggiavo con i miei bagagli, avevo iniziato ad osservarla, come spesso mi capita di fare con le persone che non conosco.

La signora, che doveva avere almeno ottant’anni, aveva un’aria minuta e fragile, il viso rugoso incorniciato da una nuvola di capelli bianchissimi. I suoi indumenti semplici ma di buona fattura, profumavano di una delicata fragranza; non indossava ninnoli o monili, l’unica concessione alla vanità una piccola catenina con un ciondolo tondo e liscio. Vicino ai suoi piedi, una bizzarra valigia in pelle dal colore verde acido consumata dal tempo, completamente ricoperta di disegni e iscrizioni variopinti.

Dopo i normali convenevoli, avevo immediatamente tirato fuori il mio libro per immergermi nella lettura.

Non lo so come successe, ma so soltanto che ad un certo punto cominciammo a parlare.

Aveva una voce melodiosa e ipnotica. Mi chiese se avessi piacere di ascoltare una storia.

Ed io, che sono sempre fatalmente attratta dalle storie, le dissi di sì, e poiché quella che mi raccontò è una storia di gran fascino, ora io la racconterò a voi.

“La storia racconta di Michele, un giovane forte e brillante, che giunto alla maggiore età, aveva iniziato a sentire la necessità di vedere il mondo. E così aveva iniziato a viaggiare, ogni volta che poteva saliva su un aereo e se ne andava a visitare qualche luogo sperduto.

Fu in uno di quei viaggi in Guatemala che Michele trovò, in un sito archeologico, un ciondolo: non era granché come fattura, e non aveva neppure l'aria di essere troppo prezioso… così Michele se lo mise in tasca.

Dimentico del ciondolo Michele continuò il suo soggiorno e fu solo quando, ormai tornato in Italia, disfò la valigia che esso scivolò fuori dalla tasca dei pantaloni in cui si trovava.

Michele senza troppo pensarci indossò il ciondolo.

Passarono gli anni, e Michele continuò a girare senza sosta per il mondo.

Fino a che, alla soglia dei trent’anni Michele, che ormai aveva girato in ogni dove decise che era arrivato il momento di acquistare una casa per sé ed iniziò a girare per trovare quella che sarebbe stata la sua abitazione.

Ma il tempo passava e Michele proprio non riusciva a trovare quella giusta. Erano tutte troppo grandi, o troppo piccole e poco luminose, o troppo isolate o troppo poco … insomma, la verità, probabilmente, era

che Michele in realtà non aveva ancora voglia di fare quel passo, e così, a distanza di due anni da quando aveva deciso di acquistare una casa, Michele era ancora lì che girava.

Finché un giorno, la vide.

La villetta si trovava appena fuori città: entrarono da un cancello arrugginito dal quale accedettero ad piccolo ma grazioso patio. La casa era lì, di fronte a lui, i muri verde acido scrostati, le imposte di legno scuro accostate come occhi chiusi e dormienti, su un lato una quercia che aveva tutta l’aria di essere millenaria che allungava le sue braccia nodose ricoprendo il tetto rossiccio con le sue fronde rigogliose.

Michele si avvicinò alla porta, che era di legno intagliato e come ipnotizzato allungò la mano verso la maniglia, ma prima ancora che la sfiorasse la porta si aprì cigolando e lui entrò, seguito dall’agente immobiliare, che continuava a snocciolare informazioni sulla casa che lui non sentiva, perché nel momento in cui era entrato tra quelle mura le sue tempie avevano iniziato a pulsare freneticamente, mentre il battito del suo cuore accelerava: ed una sensazione mai provata si era fatta strada dentro di lui. Sentiva che quelle mura erano parte di lui e che lui stesso, la sua anima, ma anche il suo corpo, tutto era inestricabilmente intrecciato con quei mattoni scrostati.

La decisione fu istantanea: Michele acquistò la casa, e nonostante i lavori di ristrutturazione da eseguire fossero molti, ci si trasferì quasi subito.

E poiché aveva deciso che i lavori li avrebbe eseguiti lui stesso, Michele iniziò a lavorare senza sosta, febbrilmente, senza mai risparmiarsi.

Al mattino andava a lavorare nella piccola azienda di famiglia, ma la sua testa era sempre lì.

Ernesto e Monica, i genitori di Michele, che insieme a lui gestivano l’azienda di famiglia inizialmente furono molto contenti dell’acquisto della casa. Michele sembrava così entusiasta mentre raccontava loro i progressi nei lavori, dicendogli che li avrebbe invitati solo quando i lavori sarebbero finiti e la casa fosse stata perfetta.

Con il passare dei mesi, tuttavia, i due coniugi, iniziarono a sentirsi un po’ allarmati: il figlio sembrava cambiato.. sembrava sempre più cupo, chiuso in se stesso, estraniato dal mondo; il suo volto aveva iniziato ad avere un aspetto pallido ed emaciato, ed era dimagrito.

I suoi discorsi ormai vertevano solo su preventivi di materiali edili e lavorazioni e questo quando parlava, perché per la verità non è che fosse molto loquace. Inoltre i preventivi di spesa per i lavori di ristrutturazione stavano raggiungendo cifre da capogiro, poiché Michele per la sua casa, aveva iniziato ad acquistare i materiali più costosi esistenti, e sembrava non essere mai contento: ad ogni acquisto effettuato nei giorni successivi Michele trovava sempre del legno, delle piastrelle, dei materiali, ancora più pregiati e costosi, e così i materiali finivano per restare lì progressivamente accatastati mentre i debiti di Michele aumentavano e il suo conto corrente si assottigliava sempre più.

Ernesto e Monica, peraltro, non erano ancora riusciti a vedere la casa, perché il figlio accampava scuse sempre diverse ma continuava sistematicamente a rimandare il loro invito.

Condivisero la loro preoccupazione con Maria, la migliore amica di Michele che lo conosceva fin dall'infanzia, la quale confermò le loro impressioni, dicendo di essere anche lei molto preoccupata per l'amico

Finché una sera Ernesto e Monica decisero di andare da Michele: il figlio, ormai da un mese, non si presentava a lavoro e non rispondeva al telefono.

E così i due, l’indirizzo appuntato su un foglietto spiegazzato, salirono in macchina per recarsi dal ragazzo. Avevano deciso di proporre a Michele di fare un viaggio in Giappone. Avrebbero pagato loro, purché il figlio uscisse da quella casa che sembrava sempre più averlo reso prigioniero. E così si avviarono.

Solo che non arrivarono mai a destinazione: perché, cosa che nessuno riuscì mai a spiegare, mentre procedevano sulla strada ad un certo punto Ernesto aveva perso il controllo dell'auto, e sterzando bruscamente aveva sbattuto con violenza contro il guardrail, rompendolo mentre l'auto sbandava e precipitava nel vuoto.

Con la morte di suo padre e sua madre Michele aveva ereditato l’azienda di famiglia: triste e addolorato decise che l’avrebbe portata avanti e fatta fiorire per onorare la memoria dei suoi genitori.

Decise inoltre, di disfarsi della casa: perché ora che aveva ricominciato ad uscire tutti i giorni per recarsi a lavoro qualcosa dentro di lui si era improvvisamente risvegliata. Non sapeva perché, ma si rendeva conto che l’acquisto di quell’immobile aveva provocato nella sua vita solo scompiglio.

Anche Maria l'aveva spronato a vendere la casa, e a riprendere a viaggiare, a tornare, insomma, a vivere.

Michele le aveva promesso che lo avrebbe fatto, ma lei era molto preoccupata.

E Michele, affinché lei stesse tranquilla, le diede il suo ciondolo, quello che aveva trovato in Guatemala tanti anni prima e che era un po' diventato il suo portafortuna.

Le disse che glielo avrebbe restituito solo quando la casa fosse stata venduta e lei, sapendo quanto ci tenesse, si tranquillizzò.

E così una mattina Michele si svegliò presto, deciso a mettere in atto il suo proposito: si vestì di tutto punto e giunto al centro del salotto, sentendosi forse un po’ sciocco, iniziò a parlare alla casa. Sentiva che doveva farlo.. perché in fondo quelle mura erano parte di lui.

Parlava con trasporto e mentre lo faceva non si rese conto che tutto intorno a lui aveva iniziato a girare vorticosamente. Un tonfo enorme e poi il buio.

Nessuno lo vide mai più.

Maria, che non era mai stata a casa di Michele, dopo qualche giorno prese coraggio e si recò all’indirizzo dove lui risultava abitare.

A quell’indirizzo tuttavia non c’era niente: solo un campo incolto, sormontato da una grande quercia nodosa”.

Ed una valigia verde acido, con delle strane iscrizioni.


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