Libereria
FRAMMENTO DI ROMANZO INCOMPIUTO SULLA SICILIA NORMANNA: DICEMBRE 1167 di Livio Aquila
Dopo Cefalù, sembrò che il rigore del clima e l’asprezza dei luoghi riflettesse le angosce che serbavo in animo. Il cielo addensava nembi di tenebra fosca, quasi si velasse per lutto e trattenesse pianto. Il mare imperversava senza pace, sferzato da rabbiose correnti, come belva ai colpi di flagello. Per alcune notti trovammo riparo presso un monastero greco, arroccato in cima a un monte solitario. L’avresti detto rifugio di eremiti che fuggono la luce, ma custodiva tesori di sapienza e santità. Gli eruditi della corte si dilettarono consultando manoscritti antichi di secoli. Le guardie del re andarono a caccia nei boschi d’intorno. Trovammo ristoro nelle lunghe liturgie notturne: i canti sacri ci giungevano come balsamo per l’animo, mentre i volti dei santi alle pareti, rischiarati dalle molte candele, ci scrutavano, come vegliando su di noi e sul mondo intero. L’adolescente sovrano, la regina madre, l’eccellente Stefano ed io stesso amavamo la dolce chiesetta come i conigli la propria tana al riparo dalle piogge e dai pericoli di fuori. Pur nella povertà del luogo, il re si mostrò felice di quell’imprevista sosta, così remota dagli intrighi e dagli affanni della capitale. Lieto della pace ritrovata, il buon re Guglielmo donò preziosi e privilegi ai timidi monaci, imbarazzati per non aver potuto degnamente accogliere la sua maestà. Riprendemmo la marcia verso oriente, percorrendo sentieri ai piedi di elevatissimi monti, cime dense di fitta nebbia. Da qui ancora i lupi alzano alla luna il grido della fame. È un deserto d’uomini. Incontrammo rari tuguri di pastori, che vivono come bestie, ma parlano tuttora la lingua di Platone e Aristotele, ignari delle lingue di Roma e di Medina. Nell’ultima luce del giorno seguente, ci accampammo presso un’antica città. Le sue rovine proiettavano su di noi lughe ombre, mentre il cielo rasserenato nel crepuscolo si andava tingendo di porpora regale. Tutti noi ammirammo le titaniche colonne, collocate secondo una logica enigmatica, come un’arcana scrittura, a tutti visibile, ma ormai incomprensibile, e meditavo come quei colossi di muta roccia celassero ormai tutto il segreto di età trapassate, senza più memoria. Così dunque scompaiono le città e il loro ricordo si perde nel vano susseguirsi delle generazioni, simili alle foglie, che ad una ad una il vento disperde.